Angeli con la Faccia Sporca
Angeli come noi: la ricerca di un legame più profondo con il sacro attraverso l'arte di Caravaggio.
L'Ispirazione di San Matteo di Caravaggio, che capolavoro!
Come succederà secoli dopo nel Neorealismo cinematografico italiano, Caravaggio fa scaturire il divino da un miscuglio sapiente tra sacro e profano.
C’è l'angelo, che più che scendere dalle nuvole sembra uscito da un vicolo di Roma. Niente aura mistica, un aspetto decisamente terreno: dita rossastre, labbra carnose e un orecchio che sembra tanto rosso quanto il naso di chi ha preso una sbronza. un modello probabilmente scovato in qualche stradina malfamata, un 'angelo della porta accanto'.
Non è una sorpresa che questo approccio abbia fatto storcere il naso a più di un prelato. Immaginate i chierici dell'epoca che vedono questo angelo troppo umano, forse un po' troppo vicino al peccatore medio che siede in chiesa la domenica. Caravaggio, con la sua abitudine di prendere la realtà per il bavero e sbatterla sulla tela, ha sicuramente scosso qualche certezza ecclesiastica con la sua rappresentazione così cruda e genuina del divino.
Oggi, però, guardiamo a quest'opera e vediamo la maestria di un artista che ha saputo rendere il sacro non solo accessibile, ma vibrante di vita, di quella vita imperfetta e vera che palpita in ogni angolo delle sue tele. L'angelo di Caravaggio non ci guida solo nel Vangelo di San Matteo, ma ci invita a riconsiderare l'essenza stessa del divino, che forse, in fondo, ha più dell’umano di quanto vorremmo ammettere.
De gustibus non est disputandum, eh? "Non si discute sui gusti", ci dice il vecchio detto latino. Ma, ammettiamolo, a volte ne discutiamo eccome, specialmente quando un genio come Caravaggio decide di rivoluzionare l'arte con un angelo che sembra più pronto per una rissa da osteria che per un'ascensione celestiale.
Ai tempi di Caravaggio, il gusto era un affare piuttosto rigido, modellato dai canoni religiosi e dalle aspettative sociali che prediligevano un'arte più idealizzata e meno "vera".
Poi arriva Caravaggio, con la sua luce cruda e spietata, a sfidare gli occhi del tempo, abituati a un sacro più pulito e distaccato dalla realtà terrena. Pochi, nonostante la bellezza evidente delle sue opere, erano pronti ad accogliere immagin tanto rivoluzionarie.
Eppure, la bellezza persiste. È come una melodia che aspetta solo di essere ascoltata, anche se non tutti ne colgono subito la dolcezza. Rimane lì, paziente e imperturbabile, fino a che nuovi occhi, forse meno vincolati dai pregiudizi del passato, non riescono a riconoscerla e apprezzarla pienamente.
Per Caravaggio, la realizzazione del quadro fu tutt'altro che semplice, soprattutto perché si trattava di un secondo tentativo per soddisfare una commissione molto esigente. La prima versione, anche se anch'essa straordinaria, venne rifiutata e purtroppo distrutta durante la Seconda Guerra Mondiale. Oggi ne rimangono solo alcune fotografie in bianco e nero che ci offrono uno scorcio di quell'opera perduta.
Nella prima versione, se l'angelo aveva un aspetto almeno un po' più celestiale, aveva tratti che, con quelle labbra gonfie e femminee, potevano sembrare troppo sensuali per essere considerate adatte a un'opera sacra.
San Matteo, poi, era un capitolo a parte. Immaginate la faccia dei committenti quando si trovarono davanti a un santo che, più che evocare una venerabile santità, sembrava pronto a chiedere l'elemosina fuori dalla chiesa.
Lo stile senza fronzoli del pittore, aveva optato per un realismo talmente spinto da far sembrare San Matteo un mendicante anziché un apostolo. Non proprio l'ideale per un altare che doveva ispirare rispetto e devozione.
La scelta di Caravaggio di rappresentare San Matteo con un realismo così crudo rifletteva il suo stile ribelle e innovativo, ma le autorità ecclesiastiche lo trovarono troppo rozzo e inappropriato. Non volevano certo un'immagine che suggerisse un povero straccione al posto del santo evangelista, e così respinsero la prima versione, portando l'artista a dipingere quella definitiva, che conosciamo oggi.
Possiamo quasi immaginare i committenti quando si trovarono davanti il secondo dipinto, alzare perplessi il sopracciglio, accettare alla fine l’opera con un sospiro di rassegnazione, consapevoli che nonostante tutto, quell’immagine potente avrebbe lasciato il segno.
L'intuizione di Caravaggio di utilizzare persone reali, prelevate direttamente dalle strade, come modelli per le sue figure sacre, era rivoluzionaria e scandalosa al tempo stesso. Non c'è da stupirsi che abbia scatenato non pochi battibecchi nei circoli ecclesiastici. Eppure, la sua arte possedeva (e possiede) una forza e una bellezza tali da superare ogni convenzione e ogni aspettativa del "deve essere".
E qui entra in gioco il punto di E.H. Gombrich, una vera e propria icona nel campo della storia dell'arte. Come ci ricorda nel suo imperdibile "La storia dell'arte", la bellezza è incredibilmente sfuggente e varia enormemente da un contesto all'altro, da un'epoca all'altra.
Il confronto tra gli angeli di Caravaggio con quelli del Quattrocento rappresentati mentre suonano il liuto, è perfetto per dimostrare come la bellezza possa manifestarsi in forme diverse.
L'ideale di grazia e armonia del Quattrocento, stride con la goffaggine dei modelli usati da Caravaggio e ci ricordano che a volte la bellezza si trova proprio nell'imperfezione e nel carattere unico dell'individuo.
Gombrich nel suo libro ci propone il confronto tra le opere di Melozzo da Forlì (qui sopra e Hans Memling (di seguito) Due maestri del ‘400, due stili, due diverse visioni del divino.
L'angelo di Melozzo da Forlì, con quella sua aria da primo della classe, è sicuramente quello che farebbe girare la testa entrando in una stanza: grazia, eleganza, e quel tocco di divinità che non guasta mai. È il tipo di bellezza che colpisce subito, facile da amare e da apprezzare, che fa dire: "Ecco, questo è ciò che mi aspetto da un angelo!"
Poi c'è l'angelo di Hans Memling, magari meno immediato, con una bellezza che non urla per attirare l'attenzione ma sussurra, chiedendo di essere scoperta poco a poco. È il classico "non giudicare un libro dalla copertina".
Gombrich ci invita a guardare oltre l'apparenza, a prendersi il tempo per apprezzare le qualità meno ovvie ma forse più profonde di quest'ultima opera.
Forse è necessario superare quelle prime impressioni che possono impedirci di vedere la vera bellezza di qualcosa che non rientra nei nostri canoni abituali. È un invito a esplorare, a conoscere meglio, a lasciare che l'arte ci parli in modi che forse non ci aspettiamo.
E così, anche se a prima vista potremmo preferire l'eleganza senza sforzo di Melozzo, forse Memling offre la possibilità di un apprezzamento più maturo, capace di crescere e arricchirsi col tempo, diventando, come dice Gombrich, "infinitamente amabile". Ecco la vera magia dell'arte: non si tratta solo di ciò che è immediatamente piacevole, ma di ciò che continua a dare, a sorprendere e a nutrire lo spirito, anche quando il primo impatto è passato.
Quando parliamo di bellezza e citiamo quell'antico proverbio: "la bellezza è negli occhi di chi guarda", forse ci troviamo di fronte solo a un bel modo di dire, che non ci racconta proprio tutto il film, vero? Perché, se la bellezza fosse solo una questione di gusti personali, allora perché ci diamo tanto da fare per insegnarla e raggiungerla nell'arte, nell'architettura, e nel design? E poi, c'è da dire che nonostante i gusti possano variare, c'è un bel po' di gente, da tutte le parti del mondo, che si trova d'accordo su cosa sia bello e cosa no.
Dunque, la bellezza non è proprio così soggettiva come ci piace pensare. Se fosse davvero così arbitraria, come spiegheremmo che milioni di persone riescano a concordare su certe cose? Sembra proprio che ci siano alcuni aspetti della bellezza che vanno oltre il personale, che colpiscono una corda comune in tutti noi. Forse, più che cercare la bellezza solo con i nostri occhi, la stiamo anche un po' scoprendo insieme, mano nella mano, con un bel po' di accordo su cosa renda qualcosa veramente bello.
Sapevate che quella famosa frase sulla bellezza che sta "negli occhi di chi guarda" non l'ha coniata un grande pensatore, ma è saltata fuori da un romanzo leggero, uno di quelli che non ti aspetti? Eppure, la ripetiamo tutti come se fosse una massima di Platone. Usarla per zittire le discussioni sull'arte è un po' come buttare acqua sul fuoco di un bel dibattito: spegne tutto, invece di alimentare la conversazione.
Diamo un'occhiata all'arte: non è solo una questione di "mi piace" o "non mi piace". C'è di più, molto di più da scoprire sulla bellezza, cose che vanno ben oltre il primo impatto visivo. Fermarsi a quel detto è come fermarsi alla copertina di un libro senza mai aprirlo. L'arte ci sfida a guardare più a fondo, a pensare e a esplorare, e è proprio scavando in questo processo che iniziamo a capire cosa rende qualcosa veramente speciale. La bellezza, in fondo, è un viaggio più che una destinazione, e ogni opera d'arte è una mappa che ci invita a esplorare.
Nikolai Blohkin in “Prior to Entrance” ci fa un bel regalo visivo, intrecciando l'arte con quel dibattito sempre acceso sulla bellezza. Non è solo un dipinto; è quasi un invito a spalancare le porte della percezione. Come quando stai per aprire una porta, sapendo che dietro c'è qualcosa di nuovo da scoprire, questo quadro cattura quel momento carico di attesa, di potenzialità, suggerendo che ci sia molto più di quello che gli occhi colgono al primo sguardo.
Blohkin, con la sua pennellata sicura e il talento nell'evocare emozioni forti, non si ferma alla superficie. Ma ci invita proprio a guardare oltre quella tranquillità apparente che il quadro sembra offrire. Ecco che la bellezza, come nel quadro, si svela poco a poco, richiedendo uno sguardo attento e prolungato, una vera contemplazione per apprezzare tutte le sue sfumature.
Quindi, il lavoro di Blohkin si inserisce perfettamente nel discorso sulla bellezza che trascende il cliché di essere solo "negli occhi di chi guarda". La bellezza, come ci mostra l'artista, è un dialogo—non solo un'impressione fugace, ma un'esperienza che si approfondisce con il tempo, la dedizione e un cuore aperto, pronto a scoprire i segreti celati sotto la superficie. Questa idea rafforza il concetto che, come in un'opera d'arte, il vero valore e la vera bellezza emergono quando superiamo il giudizio superficiale e ci immergiamo nell'essenza profonda di ciò che stiamo osservando.
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Caravaggio, con la sua capacità di catturare l'umano nel divino, ci lascia con una domanda potente: è possibile che, in fondo, il sacro risieda proprio nelle imperfezioni umane che ci sono tanto familiari? Come possiamo vedere il divino nelle facce sporche degli angeli di Caravaggio e cosa ci dice questo sulla nostra ricerca della bellezza nell'arte e nella vita?
Che tu sia un appassionato di storia dell'arte, un critico o semplicemente un curioso, mi piacerebbe conoscere la tua opinione su come le imperfezioni possono arricchire la nostra percezione della bellezza. Pensi che la bellezza debba essere sempre pulita e perfetta, o c'è spazio per una bellezza più "vera", più umana? Lascia un commento qui sotto e condividi le tue riflessioni!